Testimoni di Geova
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La Storia di Elisa


La necessità di parlare della propria esperienza nasce dal desiderio di condividere con altre persone qualche cosa di sé. Nel mio scritto non c’è alcuna pretesa di convertire alcuna persona, né di screditarla, né tanto meno di fare polemica su dottrine, insegnamenti e interpretazioni macchinose di versetti biblici più o meno correttamente tradotti. Parto dal presupposto che ognuno sceglie la maniera che più gli si confà di adorare Dio o di credere in lui, e una volta scelta la strada è libero di continuare a percorrerla o di lasciarla, indipendentemente dal fatto che quella strada sia buona o meno buona. Se la mia vita migliora perché mi insegnano che anche gli oggetti inanimati hanno un’anima, crederò in quello.

Se il mio carattere diventa meno aggressivo perché mi insegnano che Dio punisce gli irascibili, buon per me. Se mi sento bene ad adorare un Dio che promette morte e distruzione, va altrettanto bene. Quello che voglio dire è che non mi interessa discutere quale sia la strada, l’essenza del mio discorso è che ognuno trova la sua, e se ci sta bene, è giusto che ci rimanga.

Dopo questa introduzione, descriverò la mia esperienza all’interno della comunità religiosa dei Testimoni di Geova. Ammesso e non concesso che io abbia tratto anche dei buoni insegnamenti, durante tale permanenza, non posso negarne i risvolti negativi.

Avevo circa 10 anni quando mia madre fece entrare per la prima volta i TdG in casa, e circa 12 quando ho iniziato a studiare. A quell’età ho anche iniziato a manifestare dei disturbi psicosomatici che mi sarei portata dietro per anni. Non posso dire che mia madre mi abbia costretta a frequentare l’ambiente, ma fui spinta semplicemente dalla mia curiosità, essendo una ragazzina molto vivace. Certo è che la rinuncia al Natale e ad altre ricorrenze non mi ha lasciata completamente indifferente, anche perché non è stato mai trovato nessun sostituto alle ricorrenze negate, né un modo per trascorrere del tempo assieme, come famiglia.

All’età di 14 anni, di mia spontanea volontà, divenni una proclamatrice non battezzata, e a 16 mi battezzai ad un’assemblea di Circoscrizione a Cameri. Non avvertii nessuna sensazione particolare, differentemente da mia madre e da molti altri, che sentivano di “morire” e “rinascere” nell’immersione e nell’uscita dall’acqua di una piccola piscina. E continuai a non provare nessuna sensazione particolare nemmeno in seguito, nel senso che tutta la mia vita spirituale è stato un susseguirsi di crisi spirituali seguite da brevi momenti di ascesa, nuovamente accompagnati da lunghe, interminabili crisi. Ho sempre avuto dei problemi spirituali, a cui nessuno ha mai saputo porre rimedio, e dopo poco tempo hanno iniziato a pesarmi quasi tutte le attività teocratiche: a partire dal servizio, fino allo studio, la meditazione (il cui significato non ho mai compreso appieno), la partecipazione alle adunanze.

Nel frattempo, mia madre era troppo impegnata a fare la pioniera regolare per accorgersi di me, e dei problemi che andavo via via manifestando: bulimia (per i successivi 10 anni), anoressia, depressione (6 mesi di crisi e 5 anni di strascichi), allergie e intolleranze, crisi maniaco-depressive (per svariati mesi), fino ad arrivare a scoppi d’ira e crisi di nervi vere e proprie. Ho sviluppato una lunga lista di disturbi psicosomatici che hanno colpito la mia coscienza e il mio corpo praticamente ovunque, e ad alcuni devo ancora trovare un rimedio. Posso in effetti concludere che i miei malesseri fossero dovuti ad una lotta interna tra i miei desideri e il senso del dovere esasperato dalla comunità religiosa a cui appartenevo, all’interno della quale non sono ben visti coloro che dimostrano “spirito d’indipendenza” e fiacchezza spirituale, dei quali è detto che vivono “ai margini” dell’organizzazione.

Questa lotta dev’essere iniziata ben presto nella mia mente di adolescente, e il problema si è via via ingigantito anche a causa del rapporto conflittuale con mia madre che, completamente immersa in queste dottrine religiose, ha sempre avuto un’ottica assolutista dei principi religiosi, riservandomi così solo il tempo che le restava dalla sua attività di proselitismo, e impostando con me un rapporto che aveva come unica base l’adorazione dello stesso Dio. Questo ha stravolto il normale rapporto madre-figlia che ci sarebbe dovuto essere, e lo ha subordinato all’osservanza di infinite regole, spacciate per princìpi.

Questo ha comportato una serie di “adattamenti” delle mie naturali inclinazioni, verso quello che lei definiva “il volere di Geova”. Crescendo, sentivo il bisogno di esprimermi in qualche maniera, visto che ogni istinto doveva essere soffocato, e ho provato varie strade, a partire dallo studio del pianoforte, iniziato in prima media, nell’85, e conclusosi nel ’90 per mia decisione, abbondantemente lodata dalla maggior parte dei componenti della congregazione, tutti convinti che era la scelta migliore per non distrarre la mia mente con cose futili.

Un'altra strada attraverso cui ho cercato di esprimermi è stata la scrittura, conseguente anche alla lettura di libri e romanzi: scrivevo racconti, storie e dialoghi, ma nemmeno queste due cose tenevano a freno mia madre dal rimproverarmi. Le letture, secondo lei, avevano una pessima influenza su di me e mi distraevano da “cose più importanti”. La scrittura ancora peggio: erano tempo e inchiostro sprecati. E anche ore di sonno, visto che a volte lo facevo di notte per poter essere in pace (ma soprattutto di notte la cosa veniva mal tollerata). Così addio letture e passatempi. Smisi anche di avere un diario, visto che mia madre lo leggeva e lo correggeva pure, ogni volta che ci trovava una parolaccia... usando il bianchetto e mettendoci a fianco la scrittura biblica appropriata (!!).

Ad un certo punto cercai una strada scolastica nel tentativo di dare corpo alle varie aspirazioni che avevo; tentai di proporre vari corsi di studio, ma inevitabilmente nessuno di questi andava bene. Nessuno mi ha mai impedito con la forza di fare qualcosa: con me bastava e avanzava il ricatto morale, anche molto sottile o involontario. Così ho rinunciato anche ad un'istruzione superiore, visto che non c'è stato nessuno che mi abbia incoraggiata, spronata, o aiutata a scegliere.

Niente Liceo Artistico, o corsi di computer grafica: o erano troppo “cari” e non me la sentivo di insistere perché ritenevo d’essere di peso sul bilancio economico, o erano a Milano, e per mia madre questo sarebbe stato difficile da accettare, perché sarei dovuta stare via molte ore al giorno, distogliendo così la mia attenzione dalle solite cose più importanti (cioè la possibilità di uscire molte ore in servizio). Così buttai via anni della mia vita suonando i campanelli, e trovando dei lavoretti part-time tra i più brutti e mal retribuiti che ci potessero essere (promoter, attività di telemarketing, volantinaggio… poi la postina e la cassiera… ma dopo pochi mesi impazzivo di noia e mi licenziavo… non resistevo in un impiego ripetitivo e privo di creatività).

Ciò che ha salvato il mio cervello dalla follia è stata qualche lettura che ho continuato segretamente a fare, che mi ha portato poi a seguire degli stage sul potere personale e sulle proprie potenzialità (il primo che ho fatto è stato nel ’96 a Bruxelles, con Anthony Robbins, e gli altri in varie parti d’Italia col training group di HRD che ha sede a Milano). Non sprecherò altre righe nel descrivere le difficoltà incontrate nel convincere i miei genitori a lasciarmeli fare; alla fine ero talmente esasperata che sarei stata disposta a scappare di nascosto. Ovviamente, i pochi che l’hanno saputo si sono affrettati a redarguirmi e a farmi notare che tutti coloro che avevano seguito questi corsi, in seguito erano usciti dall’organizzazione di Geova (e adesso capisco bene il perché!).

Non voglio dimenticare di inserire il fatto che questo stile di vita ha stravolto, oltre a tutto il resto, anche il normale rapporto con le altre persone e con i parenti, che ci vedevano come “impazziti” e coi quali la frequentazione è praticamente cessata, in quanto facenti parte “del mondo”. E cito solo il fatto che oltre alle normali ricorrenze, si doveva rinunciare anche a matrimoni e funerali, visto che per mia madre risultava fastidioso entrare nel “tempio di Babilonia la Grande”, cioè una normale chiesa, sia per una funzione, sia per ammirarne le bellezze architettoniche e pittoriche.
Nel frattempo, nel ‘96 o giù di lì, ero stata ripresa pubblicamente e avevo subito l’umiliazione di circa 10 mesi di riprensione, vedendomi tolti “tutti” i privilegi (che, come si sa, per una donna sono solo i commenti in sala e i discorsi di esercitazione alla scuola di ministero teocratico).

Motivazione: atti impuri. Ricordo ancora la confusione che fece l’anziano nel discorso dei bisogni locali, in cui cercò di non dire il fatto accaduto ma in realtà lo disse lo stesso… creando domande nella testa di tutta la congregazione. Avrei voluto sprofondare, quella sera, era come se la sedia su cui ero seduta, entrasse a poco a poco nelle piastrelle del pavimento… una delle umiliazioni peggiori. (Anche perché la gente sente prima un nome, poi sente un discorso, e associa il nome al discorso…).

Ristabilitami dalla “riprensione amorevole di Geova, che castiga colui che ama”, cercai di ristabilire una condizione spirituale stabile, ma non ci riuscii mai, così come non c’ero riuscita negli anni precedenti. Nel frattempo le mie aspirazioni artistiche non cessarono, fino al punto in cui trovai irresistibile l'idea di frequentare una scuola di recitazione, nel ’97, perché sentivo di poter fare l'attrice. Scoppiò il putiferio, ovviamente. Tutti addosso a mettermi in guardia sui pericoli di quell’ambiente terribilmente perverso, immorale, satanico e deviante. E nel ’98 successe “il fattaccio”: ricaddi nello stesso “errore” del ’96 (questa volta col mio insegnante di teatro) e a questo punto, visto che ero “recidiva”, ci fu un secondo comitato giudiziario che questa volta decise per la disassociazione. Decisero loro per me.

Era come se io avessi commesso un’ulteriore infrazione spinta da una motivazione inconscia, infransi le regole un’altra volta spinta dal desiderio di vedere cosa sarebbe successo, forse, senza nemmeno rendermi conto di quello che stavo facendo. Quando mi chiesero se fossi stata disposta a lasciare il mio compagno, io non me la sentii più, perché non era la prima volta che fui costretta ad abbandonare un amore o un’amicizia, sempre per seguire l’“amorevole” disciplina dettata da mia madre. Proprio, il mio cuore non reggeva più, non avrei retto ad un’altra rinuncia di tipo affettivo.

Tutti, ovviamente, pensarono che io lasciassi la verità per uno del mondo. In realtà io ero in crisi da anni, e colsi la palla al balzo per dare una svolta alla mia vita, immersa in un mare infinito di sensi di colpa. Chi ha saputo dell’esistenza del problema, qualche tempo prima della disassociazione, inoltre, non ha fatto assolutamente nulla per aiutarmi: erano già due o tre mesi che non frequentavo le adunanze e non uscivo più in servizio, e nessun pastore ha avuto cura della pecorella che si stava smarrendo, né c’è stato amico che abbia teso la mano, tutt’altro.

Ho assistito ad uno schierarsi di muri e barriere eretti di fronte a me, e sono stata travolta da un fiume di parole di condanna, espressioni sprezzanti di giudizio nei miei confronti, oppure il totale disinteresse, seguito da immediato allontanamento. Improvvisamente non ho avuto più amici. E nemmeno una famiglia, difatti dopo 2 mesi dalla mia disassociazione, sono stata letteralmente costretta ad andare via di casa, perché là non si poteva vivere, la famiglia era divisa, si discuteva per un nonnulla, non mi lasciavano lavorare, non mi lasciavano nemmeno vivere. Il 4 Ottobre ’98 me ne sono andata di casa, e per circa 5 mesi si sono interrotti completamente i contatti con la mia famiglia (mia madre, mia sorella e suo marito, e mio padre che era solo un simpatizzante). Quando sono ripresi dei timidi contatti, ogni volta che andavo da loro per una fugace visita, avevo attacchi di mal di stomaco, a causa della gastrite e della colite spastica che mi sono venute (oltre alla sindrome da colon irritabile e compagnia bella…).

Tra le altre belle cose, mio padre ha voluto farmi sapere che la casa che aveva acquistato per me, intestandola a me (così come aveva fatto per mia sorella) sarebbe stata sottratta alla mie volontà di proprietaria, essendo stati inseriti i miei genitori come assoluti usufruttuari dell’immobile (a loro tutela, perché mio padre mi disse chiaro e tondo che voleva intervenire prima che io avessi qualche “colpo di testa”).

Inutile dire cos’altro sia successo dopo la disassociazione: siccome non avevo nessun contatto con l’esterno, eccetto il mio compagno, la mia vita sociale morì nel giro di una notte, e questo fu per me un vero trauma emotivo che ancora fatico a rimarginare, infatti non sono ancora riuscita a rifarmi una rete di amicizie come vorrei. I miei amici di sempre, erano come morti tutti improvvisamente. Mia sorella, il rapporto con la quale era sempre stato difficile, si è definitivamente nascosta dietro la scusa del seguire i “principi biblici” e si è letteralmente eclissata.

Intrapresi la carriera artistica di attrice, e il caso ha voluto che mi trovassi ad avere a che fare con personalità fra le più dure, nei primi due anni: una vera montagna da superare assolutamente da sola tra rifiuti, critiche, commenti e denigrazioni, dato che venivo sempre vista come “la fidanzata del regista” fintanto che imparavo il mestiere. Ora, a distanza di cinque anni, ho imparato a vivere e non c’è più niente che mi possa turbare fino a quei livelli: semplicemente conosco molto meglio la natura umana e sono più forte, so chi sono e cosa voglio, e sono in grado di fronteggiare qualsiasi personalità. Inoltre divento sempre più sicura della mia professionalità, e nessuno si permette più di mettere in discussione il mio lavoro, ad eccezione degli ignoranti (dico questo perché sul modo in cui ho vissuto la situazione, ha inciso moltissimo la mia scarsa conoscenza della psicologia in generale, e quindi una scarsissima dimestichezza nel trattare con la gente, dovuta ad anni di vita passati all’interno di una stretta cerchia di persone che la pensano tutte allo stesso modo e con le quali si evitano scontri e scambi di opinione aperti per i motivi che ben conosciamo…).

Per me il mondo esterno era comunque un luogo di perdizione, ed ero sempre molto critica nei confronti delle persone, avevo un sacco di complessi e di rigidità, sia fisiche che mentali, che mi rendevano difficile da frequentare, come persona. Il mio lavoro di attrice, unitamente alla mia relazione col mio compagno, mi hanno aiutato moltissimo a prendere coscienza di me stessa e a liberarmi pian piano degli schemi mentali in cui ero incastrata. Ci sto ancora lavorando adesso, a distanza di anni. Per fortuna, farò in tempo a vivere la mia vita in piena consapevolezza, e non nel torpore: i miei 29 anni me lo consentono ancora.

I problemi, purtroppo, non sono finiti qui, perché le difficoltà con la mia famiglia non si sono esaurite. Mia madre, una cristiana particolarmente “zelante e devota”, spinta da mia sorella, a sua volta “zelante” moglie di un anziano di congregazione, ha sempre impedito la mia frequentazione della casa unitamente al mio compagno, e con la scusa che la mia convivenza violava i principi divini e quindi la sua coscienza addestrata, si è ben guardata dal ricucire i rapporti con me e col mio compagno (che ha visto una o due volte in tutto e a cui non ha mai permesso di mettere piede in casa, nemmeno per un caffè, non dico per una cena!).

Se invece io mi fossi dimostrata minimamente “timorata di Dio”, avrei perlomeno posto fine alla mia condizione di “fornicatrice” legalizzando la mia unione agli occhi di Dio con un bel matrimonio (al quale sono sempre stata poco propensa, tanto per intenderci, dall’età di 14 anni!). E questo era il requisito minimo per riavvicinarmi pienamente alla famiglia (e non cito il tentativo iniziale degli anziani di scrutare il mio compagno per capire l’eventuale sua predisposizione alla “verità”: un incontro nel quale venne squadrato dall’alto al basso - anche per una sua disabilità motoria e la differenza di età di 23 anni! - e gli venne chiesto se era disposto a cambiare lavoro. Ad un suo secco, e plausibilissimo, “no”, è scattato l’inevitabile giudizio negativo di condanna definitiva). Non sto nemmeno ad elencare tutti i commenti più o meno “cristiani” che mi sono giunti alle orecchie da che ho deciso di stare con lui: si sono tutti affrettati a chiedersi se per caso facessi l’assistente sociale, tanto per citarne uno.

E mia madre, all’inizio, ha tentato in tutti i modi di distruggere il nostro rapporto, insinuando in me il dubbio che lui fosse in qualche modo un agente di Satana, e che cercasse di “insidiarmi” perché io per lui ero anzitutto “carne fresca” (per la differenza d’età) e poi perché avrei costituito per lui un’ulteriore conquista, vista la sua inveterata carriera di approfittatore bugiardo e infido (separato, per di più, e con una laurea in filosofia!! Satana in persona!!). È facile capire perché mia madre l’abbia spesso etichettato, parlandone con altri bravi e zelanti cristiani, come di un “brutto vecchio e zoppo”, restando perfettamente in armonia con le Scritture che esortano a mostrare amore e rispetto per il prossimo. Dimostrò un grande rispetto anche di me, quando arrivò addirittura a dirmi che io sarei stata disposta a dei compromessi di natura sessuale pur di ottenere dei favori nella mia carriera di attrice…

Così mi sono ritrovata fisicamente “fuori”, anche se mentalmente ero rimasta “dentro”, difatti per tutto il ’98 e ’99 non festeggiai natali, pasque, capodanni e compleanni vari, né feci brindisi o auguri a nessuno, continuavo a guardare gli altri dall’alto al basso (come ti abituano a fare), criticando fra me e me il loro modo di agire e di pensare. Continuavo a credere di appartenere alla vera religione, con la differenza che mi ero presa una pausa di riflessione, nell’attesa di tornare prima o poi.

Ma per fortuna pian piano ho cominciato ad adattarmi alla vita reale.
Successe che una sera, mentre ero a cena in un piccolo e intimo ristorante col mio compagno, ci trovammo in mezzo ad una micro-festicciola, dato che era Carnevale (non ne sapevamo nulla). Ci vennero dati dei piccoli cappellini di carta e una trombetta. Io, spinta più dal desiderio del gioco che altro, misi il cappellino e usai la trombetta, proprio come avrebbe fatto l’Elisa di 12 anni, a cui era sempre stato negato tutto ciò. Non posso negare che la coscienza mi pungolava, ma ho voluto ugualmente provare quella sensazione di serena spensieratezza nel gioco. Da quella piccolissima cosa, iniziai con molta titubanza a ricambiare gli auguri in altre occasioni, e poi a farli io per prima. Tra un’incertezza e un’altra, ricominciai a fare i normalissimi brindisi che fanno tutti e a dire “salute” quando uno starnutisce. Con cautela e sempre con lo spettro dell’organizzazione alle spalle, non rifiutai più il pasticcino in occasione del compleanno, né la fetta di colomba in occasione della Pasqua.

Con molti rimorsi, iniziai ad occuparmi del Capodanno e del Carnevale per via del lavoro, visto che organizzavamo serate per guadagnarci da vivere. Il primo e il secondo anno che decisi di addobbare la casa per Natale, (2000 e 2001) ebbi delle crisi di bulimia, perché mi sentivo fortemente in colpa e in crisi di coscienza, mi sembrava di andare contro la volontà di Dio, di fare qualcosa di terribile contro di lui, mi sembrava di farmi sedurre dallo spirito mondano di Satana.  Ma non resistevo proprio all’idea di vedere la casa addobbata, perché per me era semplicemente un bellissimo ricordo della mia infanzia.

Ci tengo a includere una lettera che in seguito, nel 2002, scrissi ad alcuni miei allievi di teatro, in cui parlavo di cosa significa per me il Natale.

Restava il fatto di avere sempre una profondissima lacuna, a livello spirituale, che non riuscivo mai a colmare, perché qualsiasi mio tentativo di avvicinamento a qualsiasi altra religione, comportava per me una grave mancanza di fede e di rispetto nei confronti di quello che mi era stato insegnato, continuavo comunque a credere che quella fosse l’unica vera religione, di conseguenza come avrei mai potuto avvicinarmi ad altre fedi? Non riuscivo neanche a pregare, perché che senso aveva rivolgersi a Geova, sapendo di essere pienamente nell’errore? Decisi così di rinunciare alla mia spiritualità, benché fosse per me un’esigenza fondamentale. E tutto questo per Geova.

Nel frattempo ero riuscita a stabilire un rapporto civile con i miei genitori, e andavo a pranzo da loro il sabato, tra un rimprovero e l’altro da parte di mia sorella nei riguardi di mia madre, la quale accettava di mangiare assieme a una disassociata. Difatti sono usciti diversi numeri di riviste e ministeri del regno che esortavano a non associarsi con questi reietti, i disassociati. E mia madre aveva continue crisi di coscienza, perché era combattuta tra il vedere me e il rispettare le regole. Per fortuna mio padre, persona simpatizzante, che aveva studiato, ma pur sempre intelligente, faceva sentire la sua voce e impediva che io venissi del tutto allontanata per motivazioni religiose.

Con lui, però, non sono mai riuscita a stabilire un solido e affettuoso rapporto per vari motivi, fra cui anche le divisioni dovute alla concezione estremista dei testimoni di Geova, di cui aveva piena la casa (visto che da loro si teneva anche lo studio di libro pomeridiano). Solo negli ultimi tempi mio padre si era sbloccato, aveva deciso di aprirsi nuovamente, mi voleva aiutare anche economicamente (il che sarebbe stato anche giusto, visto che mia sorella aveva fino a quel momento abbondantemente goduto dei suoi aiuti economici). Mio padre aveva abbattuto delle barriere, era cambiato qualcosa, aveva perfino incontrato il mio compagno e si erano parlati molto amichevolmente, un grosso macigno stava per essere abbattuto, mentre io non avevo ancora deciso cosa fare del mio futuro spirituale. Fino a che non successe qualcosa di molto brutto.

Il 23 Giugno 2003, mio padre è morto, purtroppo, e così ho perso per sempre la possibilità di recuperare il rapporto con lui, a causa di un’assurda cecità religiosa. Aveva solo 61 anni, ne avevamo ancora di tempo, e avevamo appena cominciato a conoscerci meglio e ad avere quel rapporto fra persone adulte, che non avevamo mai avuto. Non so se riuscirò mai a digerire il fatto che le divisioni religiose ci hanno impedito di comunicare meglio. Non so se riuscirò mai a digerire l’influenza che mia madre ha avuto su di lui coi suoi discorsi sull’immoralità e la sua bella coscienza da tenere pulita agli occhi di Dio. Non so.

Lo shock è stato forte, anche perché i miei erano in vacanza, è stata una cosa improvvisa e inaspettata (date le ottime condizioni di salute di mio papà). Ma le cose che mi hanno fatto più male, sembra strano a dirsi, sono state altre.
Nemmeno in una circostanza del genere, alcune persone si sono astenute dal rispettare insensate regole umane. Da alcuni non mi sono arrivate le condoglianze. Al funerale di mio padre, io ero seduta davanti alla bara, e c’è stata gente che mi è passata davanti senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Sono rimasta a dormire una sola notte a casa di mia madre, col mio compagno, in camere separate, ma lui il giorno dopo è stato messo alla porta.

Mi sono sentita dire più volte frasi vagamente intimidatorie tipo “decidi cosa vuoi fare, se vuoi rivedere tuo padre”. Tutt’ora, prima di andare a trovare mia madre, devo telefonare per non correre il rischio di incontrare “fratelli” o “sorelle”; e se per caso arriva qualcuno mentre sono lì, devo avere l’accortezza di andarmene io. Io ho dovuto capire tutti, nessuno si è sforzato di capire cosa ho passato io, si è dato tutto per scontato. Mia madre avrà senz’altro avuto il dolore più grande, ma io ho avuto un peso in più. Se mia madre si assenta da casa, non ne lascia di certo a me la custodia, ma ai suoi amati fratelli, o al vicino di casa. Dei frutti dell’orto di mio padre, ci hanno mangiato tutti, tranne io, se non per qualche pomodoro quasi marcio.

Subito dopo la disgrazia, mia sorella si è affrettata a dirmi che lei non voleva niente dell’eredità, che avrebbe fatto un lascito a mia madre, e mi esortava a fare altrettanto. Ci ho messo un po’ a capire quali potevano essere le sue intenzioni, e cioè mettersi in buona luce agli occhi di mia madre, pronta a “rinunciare” a tutto perché a lei le cose materiali non interessano (tanto per ora vivono assieme e beneficia lo stesso dei beni di mio padre). Se io farò un lascito, come sono stata esortata a fare, non solo perderò ogni contatto con la mia famiglia, ora che non c’è più mio padre a fare da “collante”, ma rischierò di vedere sprecati 30 del suo lavoro, per una gestione demenziale dei beni, visto che “la fine è vicina e tanto tutto sarà distrutto”. So già che, semplicemente accettando di avere dei diritti, passerò per la disassociata pervasa dallo spirito mondano e che pensa solo alle cose materiali.

Mia madre è molto suscettibile su questo argomento, e mia sorella è dietro che fomenta tempesta, oltre al fatto di escludermi dalle questioni di ordine burocratico e legale della famiglia. Inoltre, il giorno dopo il funerale, avevano già programmato un bell’“agguato biblico” nel tentativo di sondare le possibilità che io tornassi “da Geova, che disciplina colui che ama, ma che si rallegra quando uno ritorna alla sua organizzazione”.

E’ stato un tentativo di lavata di capo, con frasi che hanno dimostrato una sensibilità da elefante, sono state tirate fuori vecchie questioni di famiglia, si è parlato delle mie scelte non approvate, e del fatto che per me doveva essere chiaro che per loro tutto ciò non poteva essere accettato, mentre l’atteggiamento nei miei riguardi in quanto componente della famiglia, restava sempre lo stesso (si…proprio lo stesso!!). È stata una forte mancanza di rispetto che non hanno nemmeno voluto ammettere. Sono stata sempre e comunque io a dover telefonare per appianare la questione, cercando di rappacificare tutti. Se ci fosse stato mio padre, tutto questo non sarebbe successo.

Bene, in quel giorno ho deciso che avrei chiuso definitivamente il capitolo, senza indugi, senza ripensamenti, senza dubbi, perché ne avevo viste e sentite abbastanza di assurdità, e ne avevo fin sopra i capelli di vedere rispettare meticolosamente delle regole umane che arrivavano a trascendere il principio divino più che abbondantemente. Mi sono detta: “al diavolo, se anche arriverà la fine del mondo, sono disposta a morire, piuttosto che a stare in un’organizzazione del genere. Se la prospettiva è vivere per sempre con un Dio del genere, non mi interessa. Dio vede nei cuori, se vuole capire capisca, altrimenti mi uccida pure”.

E da quel giorno, ho iniziato a vederci sempre più chiaro, ho iniziato a capire quali sono stati i meccanismi che mi hanno tenuta mentalmente prigioniera per anni e anni. Ho rivisto i miei convincimenti su chi è Dio, e soprattutto su cosa non è. Idem per la figura di Satana, per il quale ho sempre avuto un eccessivo terrore, il quale mi ha impedito di avvicinarmi anche lontanamente a una vita normale. Ma io, adesso, quando vado al cimitero o quando sento di doverlo fare, parlo con mio padre, e non credo proprio di intrattenere conversazioni col demonio in persona o con qualche suo inviato speciale. Ho deciso di non sentirmi più non amata da Dio, creandomi sofferenze indicibili.

È come se mi fossi tolta delle zavorre e mi fossi “elevata” verso qualcosa di più grande, di più alto, al di là dei condizionamenti, al di là delle regolette, al di là delle piccolezze umane, al di là di ogni presunzione di esatta interpretazione. Ho capito perché sono rimasta prigioniera per tanto tempo: perché qualsiasi cosa cercassi di fare o di credere, ero abituata a vederla come proveniente dal malvagio e orchestrata da lui abilmente. Se avevo certi pensieri, nascevano da Satana, se mi avvicinavo a un diverso di tipo di adorazione di Dio, ero spinta da Satana, che mi voleva con sé. Se provavo gioia per alcune soddisfazioni lavorative o umane, era Satana che mi allettava con lo spirito mondano. Ogni dimostrazione di amore fra le persone, doveva essere fasulla, ogni cosa bella poteva essere “Satana che continua a trasformarsi in angelo di luce”. Qualsiasi cosa che avesse a che fare con il potere mentale, con certi tipi di terapie mediche, con certi obiettivi personali, perfino con lo svago e il relax… provenivano in qualche modo da Satana e costituivano, per me, qualcosa di sbagliato, il male.

Sono arrivata a lanciare, fra me e me, una sfida a Satana: tutti ti fanno credere che, finché sei nell’organizzazione di Geova, Satana ti tenta e ti mette alla prova instancabilmente, fino al punto in cui tu cedi, abbandoni la congregazione, e a quel punto Satana ti lascia in pace e ti accontenta dandoti ciò che vuoi per tenerti in suo pugno. Ebbene, io in 5 anni ho voluto vedere cosa Satana avesse in serbo per me: forse una sfavillante carriera? Forse un sacco di soldi? Forse il successo? Delle amicizie strepitose? No, niente di tutto questo. Non ho mai avuto così tante difficoltà da quando sono uscita, altroché storie! Adesso faccio le somme e mi dico che la vita è dura, e non c’è nessun Satana che soddisfa i tuoi desideri purché tu rimanga “nel mondo”. Ma d’ora in poi non mi voglio più negare niente che mi spetti, primo fra tutti un’appagante spiritualità.

Guardando la situazione da un punto di vista più ampio, ho visto cos’è veramente questa religione, ho capito le dinamiche, i sensi del dovere, i sensi di colpa indotti, le crisi di coscienza… ho visto i percorsi mentali ed emotivi, gli sbagli, le cadute, i dolori. Ho capito gli schemi, ho individuato le falle, ho trovato i punti deboli e i punti cardine, ho capito come tutto questo ha influito su di me. Non credo che farò mai parte di un altro gruppo religioso: la religione è un modo umano, rigido e imperfetto di confezionare Dio secondo le proprie esigenze, è una maniera per inscatolarlo e limitarlo, nel tentativo di avvicinarlo alla nostra bassezza e limitatezza umana. Non esiste una vera religione, e tutte possono avere un fondo di verità, perché nelle svariate ricerche che l’uomo ha fatto di Dio, ha avuto delle intuizioni che possono averlo avvicinato vagamente a qualcosa di vero. Per questo la verità può essere ovunque ma non è realmente da nessuna parte. Ognuno trova la SUA verità, ed è giusto che sia così.

Ci ho messo 5 anni per uscire da certi cunicoli mentali senza sentirmi in colpa, pensando di sbagliare gravemente e di fare un enorme torto a Dio, che comunque alla fine mi avrebbe punita e distrutta, oltre al fatto di non amarmi per le scelte che avevo o avrei preso. Adesso basta. Non nego più a me stessa di essere chi sono e di esprimere chi sono, non mi nego più la possibilità di esplorare nuove strade e di trovare la via della MIA spiritualità, la MIA verità, non la loro.
Come capisco le sofferenze di Elisa adolescente e ragazza, come vedo le sue ansie, le sue paure, le sue angosce, i suoi dolori e le sue difficoltà. So cosa vuol dire vivere una realtà che non si avverte come vera e come propria. Com’è difficile respirare un’aria che sembra artificiale, vedersi attraversare una forma di “realtà” che non corrisponde a ciò che si sente dentro. Ci si sente incastrati in una vita e in ruolo che sembrano appartenere a un altro, e c’è un disagio che non scompare mai.

Tutto è più difficile, ed è come trovarsi in un labirinto senza sapere di esserci, e per questo non si sa dov’è l’uscita, né se c’è. Non si combacia mai con se stessi, e nemmeno la vita intorno è come dovrebbe essere, si vive nel torpore, mancano dei pezzi, i colori non sono brillanti come dovrebbero, la luce non è luminosa come dovrebbe. E quando ci si accorge di non aver veramente vissuto, è devastante. Sembra di essere stati vittime di un brutto scherzo, come in una specie di Truman Show, in cui tutto era falso: la famiglia, le amicizie, gli affetti, Dio, la realtà stessa, perfino se stessi. Senza consapevolezza non si vive veramente.

Più dura il sogno e più è duro il risveglio, oltre che improbabile.
Non vorrei tediare ulteriormente il lettore, ma manca ancora l’ultimo pezzo. Arrivata a questo punto, e quindi consapevole di aver oramai infranto tutte le regole possibili, mi sono decisa ad andare per la prima volta a consultare qualche sito sui Testimoni di Geova, e lì ho avuto la mazzata finale, perché tutto avrei creduto, fuorché di essere stata vittima di una setta che opera dei condizionamenti mentali ad arte. Fin lì non ero ancora arrivata, e rendermene conto non mi ha fatto dormire per diverse notti, oltre a farmi piangere a dirotto, perché mi sono sentita sfruttata e manipolata. Proprio non riuscivo a crederci, non mi sembrava possibile che proprio loro, fossero addirittura oggetto di studio da parte di alcuni centri sugli abusi psicologici. Condizionamento mentale.

Abuso psicologico. Per me tutto questo era incredibile. A quel punto la mia mente aveva bisogno anche di argomentazioni razionali, così ho cominciato a leggere di tutto sulle varie dottrine… quando ho visto le manipolazioni fatte sulla Bibbia… quando ho letto che addirittura “Geova” non esiste!! La speranza della vita eterna sulla fantomatica terra paradisiaca… mio Dio… mi è crollato anche l’ultimo briciolo di buone intenzioni. Io che non avevo mai messo in dubbio la credibilità dello “schiavo fedele e discreto”, mi sono trovata di fronte alla cruda realtà di una religione creata ad arte, e portata avanti con tecniche di condizionamento mentale.

Quindi io sono stata male e sto ancora male, mi devo confrontare con problemi di ordine legale, la mia famiglia è mezza distrutta… e per che cosa? Per niente. Per una fede che non esiste, per un dio che non esiste, per una bibbia fasulla, per delle dottrine inventate. Altro che Truman Show.
Ora come ora sto raccogliendo i pezzi della mia vita, sparpagliati qua e là nel tempo, e sono convinta che in qualche modo mio padre mi stia dando una mano. Se così non fosse, non importa, vuol dire che comunque adesso la strada per raggiungere quel Dio tanto grande, immenso e amorevole che ho sempre visto solo da lontano, si è spianata…
Concludo dicendo che la maggior parte dei Testimoni di Geova, non sono altro che vittime, delle brave persone oneste che fanno sacrifici immani essendo convinti di fare ciò che piace a Dio, un dio che si offende se fai un brindisi alla salute. Sono pronti a rinunciare a questa vita, con l’aspettativa di viverne un’altra più lunga e più bella; sono spinti dal desiderio di veder risorgere nella carne i loro morti.

E c’è chi è morto inutilmente per questa fede. Se pensavo di potermene semplicemente distaccare, ora credo di dover fare qualcosa perché si sappia cosa c’è veramente dietro, prima che altre persone vengano mentalmente intrappolate. Io non voglio fare opposizione a nessuno, ma non credo che difenderò più questo credo come ho continuato a fare fino a poco tempo fa, non credo che mi asterrò dal denunciare come stanno i fatti, per preservare anche un briciolo di mondo in cui possa regnare la libertà mentale.
Elisa
Domenica 24 Agosto 2003



Elisa ed il Natale



Da bambina, Natale era la mia festa preferita. Era per me un momento magico in cui mi perdevo completamente, e che pregustavo in anticipo: le illuminazioni per le strade, le pubblicità in tv, con le canzoni festose, gli spot dei panettoni e dei pandori in cui si vedevano luci e colori e bambini che ridevano, e cascate di neve e di zucchero a velo… tutto questo già mi proiettava nell’atmosfera della festa. Poi adoravo l’albero di Natale. Mio padre portava sempre un albero vero, che a me sembrava enorme, e che diffondeva tutto il suo profumo; se chiudo gli occhi e ci penso, mi pare di sentirlo ancora. Veniva addobbato con tante palline colorate, nastri e lunghe file di lucine colorate di diverse forme e di tanti colori, a intermittenza.
E una volta terminato il lavoro, si spegnevano le luci e io ammiravo, incantata, questo albero luminoso e profumato; sarei rimasta ore a guardarlo, completamente rapita dalla sua bellezza, coi riflessi che le luci creavano sulle palline di vetro e sui nastri, osservando l’intermittenza delle luci come ipnotizzata, odorando quel profumo così particolare dell’albero, misto a quello degli addobbi rimasti chiusi nell’armadio per un anno.

Poi, come piccola della famiglia, ero accudita e coccolata da tutti, che facevano il possibile per farmi vivere la magia di quei momenti parlandomi di Gesù Bambino che mi avrebbe portato i doni, ma solo se fossi stata brava. Mi ricordo delle letterine che ho scritto, mi ricordo dell’attesa la notte di Natale, quando non volevo andare a letto mai e continuavo a chiedere “quando arriva Gesù Bambino? Quando arriva?”, mi ricordo dei regali sotto l’albero la mattina di Natale, quando mi svegliavo eccitatissima e smaniosa di sbirciare per vedere quanti regali c’erano, quant’erano grossi, con quale carta erano stati confezionati. E poi la sorpresa, perché non sapevo mai cosa avrei ricevuto, ed era sempre una sorpresa.
Poi, improvvisamente, tutta questa magia è finita, in casa nostra non si è più festeggiato il Natale. Ho trascorso i successivi 15 anni senza vivere quell’atmosfera.

Io ho questo ricordo, del Natale, il ricordo di bambina. Per me Natale non significa lo stress dei regali fatti per dovere, dei pranzi noiosi e stressanti coi parenti che non vuoi vedere, della serenità di facciata perché “a Natale siamo tutti più buoni quindi ingoiati l’amarezza e fai finta di niente, mangiati la fetta di panettone e sorridi, che è Natale”.

Per me Natale non è l’angoscia delle spese e dei regali da fare per convenzione, degli auguri privi di significato da fare a chiunque. Non ho vissuto il Natale così. Finché, a 25 anni, ho deciso che volevo ancora vivere quella magia, che per me era durata troppo poco, e che mi mancava. Non ho mai smesso di aggrapparmi a quei ricordi ogni volta che vedevo le luci natalizie per la città, ogni volta che vedevo un negozio o una casa addobbati, ogni volta che iniziavo a vedere in tv le pubblicità natalizie, perché per me il Natale è sempre stato slegato dall’aspetto commerciale.

E’ stato slegato anche dall’aspetto religioso, e quindi credo che per me rappresenti una piccolissima isola felice, un angolo di pace, un momento di serenità, lontano dallo stress, dall’angoscia, dalla fatica, dalla sofferenza di ogni giorno. E’ un periodo in cui torno bambina, e guardo rapita le lucine colorate che si vedono alle finestre delle altre case, così come mi sono commossa guardando il MIO alberello di Natale che risplendeva di colori, dopo tanti anni che non ne facevo uno. Così come spero che il 24 notte inizi a nevicare e prosegua per tutto il 25, perché mi piace quell’atmosfera ovattata e surreale che la neve crea, cadendo, nel silenzio, e mi piace starmene al calduccio guardando i film di Natale, si, perché per qualche giorno voglio che la mia mente stacchi dalla routine e si tuffi in questo clima festoso e sereno. E la magia della sorpresa è data dallo scambio di doni fra me e il mio compagno, e tutti gli altri fuori dai piedi, per piacere!!

Si dice per convenzione “Natale con i tuoi”, perché è un momento in cui si condividono gli affetti, sembra che ci sia una particolare esigenza di condividere, dare e ricevere affetto o compagnia, altrimenti il Natale diventa terribilmente triste. Ci sono un sacco di persone che nel periodo di Natale stanno male perché credono che manchi loro qualche cosa, perché avvertono un’angoscia e un disagio che non sanno nemmeno loro da dove arrivi, e non vedono l’ora che tutto passi. Ma se si riuscisse a non pensare affatto, in quei giorni, se si riuscisse a decidere di stare semplicemente in pace, tagliano fuori tutto ciò che dà fastidio; se si riuscisse a dire no se non si ha voglia, e a dire si se l’idea è allettante, se si riuscisse ad aggrapparsi a un bel ricordo dell’infanzia, forse ogni Natale potrebbe essere davvero come una nuvola che ci dà un passaggio verso un luogo tutto nostro, dove trovare un po’ di quella calma che è così difficile trovare nella vita di tutti i giorni.

Siamo costantemente sottoposti ad una “martirizzazione” dei sentimenti, ad un “cannibalismo emotivo” che ci priva, giorno dopo giorno, della spontaneità, dello stupore, della voglia di giocare. C’è un momento, durante l’anno, in cui tutti si credono più buoni e più onesti, e tutti fanno di tutto, anche per motivi commerciali, per farci vivere a tutti costi quest’atmosfera ovattata, ma palesemente falsa. Tutto ciò che ci circonda, a Natale, è una mera facciata. Ma anche in teatro creiamo situazioni non reali, magari in mezzo a scenografie che sappiamo essere solo una facciata, dietro cui non c’è niente, solo il fondo del palcoscenico.

Ma quando siamo sul palco le viviamo, quelle emozioni, le sentiamo quelle sensazioni, siamo davvero lì, senza fingere, ma solo vivendo interamente il momento con intensità. Forse, si potrebbe approfittare di un momento in cui tutto il mondo è impegnato a costruire la scenografia natalizia, e noi siamo i protagonisti di questo spettacolo. Sta a noi decidere se recitare la parte di quelli felici o meno, se vivere un dramma o una commedia divertente, se annoiarci vedendo tutto ciò, se provare a riscrivere il copione.

A Natale, possiamo essere noi i registi.
Crisi di coscienza,
Fedeltà a Dio
o alla propria religione?
Di Raymond Franz,
già membro del
Corpo Direttivo dei Testimoni di Geova
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