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Forse ora riesco a raccontarmi..."

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I PARTE


Ho conosciuto  la "verità" a 11 anni, per via di una compagna di scuola che aveva una vicina di casa Testimone di Geova che faceva visita alla sua famiglia. Quando la mia mamma e io ci trovavamo là, capitava che scendesse questa signora e ci parlasse della Bibbia. Lei era una persona molto provata, subiva dura persecuzione da parte del marito, che era addirittura arrivato a chiuderla fuori casa quando tornava dall'adunanza, e anche a picchiarla. Questa vicenda aveva colpito molto mia mamma, che accettò uno studio biblico con una giovane sorella.

Nel giro di poco, ovviamente, lo studio fu proposto anche a me e anche mio padre cominciò a studiare col fidanzato della sorella. Mamma e papà capirono subito come stavano le cose... lei fumava e non accettava imposizioni, lui non sopportava di essere costretto ad andare in sala la sera e la domenica. A loro piaceva andare fuori Milano la domenica e a volte per tutto il weekend, anche per farmi visitare delle belle località e per stare insieme, quindi l'idea di chiudersi in Sala non andava a genio a nessuno. Per questi e altri motivi loro smisero lo studio mentre io continuai ancora un po' da sola.
Verso i 12-13 anni (ero una ragazzina precoce...) cominciavo ad avere le prime storielle d'amore, e una in particolare mi aveva preso tanto, infatti è durata ben tre anni. La sorella che mi teneva lo studio mi mise davanti ad una scelta: "Se vuoi continuare devi lasciare i tuoi amici e il ragazzino... non puoi tenere i piedi in due scarpe". Inutile dire quale fu la mia scelta... Ma prima di andarsene da casa mia la sorella mi disse: "Comunque se sei una pecora, Geova ti darà un'altra opportunità" e questa frase rimase impressa nel mio cuore.

E finalmente iniziò la mia adolescenza, bella, libera, serena, spensierata... Ero una monella e lo sono ancora nell'animo, per cui alle scuole superiori mi impegnai politicamente, iniziai a vendere giornaletti di gruppi di estrema sinistra, a fare i picchetti a scuola, partecipare alle manifestazioni... insomma io dovevo contestare... Le amicizie che strinsi certo non erano delle migliori, così iniziai anche a fumare e ben presto provai anche qualche spinello. Tutto questo con grande costernazione e preoccupazione dei miei che lavoravano e non sapevano più come tenermi a bada.

Così una serie di avvenimenti mi riportò nella tana del lupo: il mio ragazzino mi confidò di dover seguire i suoi genitori in un trasferimento a Campobasso, sorsero alcune divergenze con la mia compagnia, iniziai a sentirmi sola e in questo contesto in due giorni incontrai una marea di fratelli e sorelle in servizio: una venne a rinnovarmi l'abbonamento, un'altra coppia in predicazione a casa mia, uno lo incontrai per strada e mi offrì le riviste... insomma tutto in due giorni, così mi ricordai la frase detta dalla sorella: "Se sei una pecora, Geova ti darà un'altra opportunità", e mi convinsi che si doveva trattare di un segno, di un invito di Geova a tornare da Lui.

Quella domenica mi preparai per andare in discoteca e, arrivata lì, invece di entrare, presi l'ascensore e salii al quarto piano, dove sapevo esserci la Sala del Regno. Era l'ottobre del 1977 e io avevo 15 anni. Quel giorno fui guardata con curiosità dai giovani della Sala perché ero vestita "da discoteca" ma tutti mi accolsero volentieri. Diversi li conoscevo già per via del precedente periodo di studio biblico. Chiesi di studiare e subito un anziano incaricò sua figlia di studiare con me... indovinate cosa? Il libro "Giovinezza"! Questa ragazza non aveva nemmeno finito le scuole medie e proprio non riusciva ad essere un'insegnante con me, per cui lo studio proseguì con domande e risposte molto velocemente fino alla fine del libro.

Nel giro di due mesi avevo smesso di fumare, a maggio diventai una proclamatrice e il 5 agosto del 1978, all'assemblea internazionale "Fede Vittoriosa" a San Siro, mi battezzai insieme ad altri 1026 fratelli e sorelle. Ricordo ancora l'emozione che provai nel sentirmi finalmente parte del popolo di Dio a tutti gli effetti, ma a pensarci ora mi rendo conto che il mio era solo un bisogno di essere accettata in un gruppo, un bisogno puramente adolescenziale, lo stesso che mi aveva spinto ad associarmi ai gruppi di estrema sinistra.

Come avevano vissuto tutto questo i miei genitori? Certo, da un lato non erano contenti perché io non festeggiavo più niente con loro e perché ero sempre fuori casa, ma dall'altro si rasserenarono perché smisi di frequentare cattive compagnie, di fumare e di mettermi in pericolo. Ero chiusa nel mio recinto e questo risparmiava loro un sacco di grane e gli evitava parecchi grattacapi.

Ricordo che mio papà disse da subito che era una società commerciale (anatema!!!) e che questa "purezza" di cui si era sempre pronti a vantarsi poteva esserci solo finche eravamo in pochi e si riusciva a mantenere il controllo, ma se fossimo cresciuti come i cattolici non sarebbe più stato possibile. Comunque, in fondo non facevo male a nessuno e loro mi hanno cresciuta senza fatica.

Durante quell'anno scolastico avevo conosciuto a scuola un ragazzino che aveva 2 anni più di me e frequentava la mia stessa sezione, io ero in seconda e lui in quarta. I suoi compagni di classe erano i miei amici estremisti di sinistra che, quando seppero che volevo smettere tutto per diventare TdG, mi presentarono al loro compagno che già lo era. Ci vedemmo spesso all'intervallo e stringemmo una certa amicizia. Ci rendemmo conto di essere della stessa congregazione (io frequentavo da pochissimo e lui non mi aveva ancora notata) e cominciammo ad uscire in compagnia con altri ragazzi/e della nostra età. Subito dopo il mio battesimo ci fidanzammo (io avevo 16 anni e mezzo e lui quasi 19).
Trascorsero così gli anni delle superiori, mentre i miei compagni si divertivano ed avevano le prime esperienze con i ragazzi/e dell'altro sesso e crescevano e maturavano anche attraverso i loro errori.

Io all'apparenza sembravo sempre più matura di loro, ero la ragazzina perfetta, niente fumo, niente alcool, niente droga, niente sesso, niente parolacce, svaghi sani, compagnie sane... però... io ero costruita, ero quello che mi dicevano avrei dovuto essere, e piano piano si spense anche la mia spontaneità, la mia allegria, la mia voglia di vivere, la gioia che illuminava i miei occhi, la spensieratezza. Ero già una donna... ma non lo ero dentro...
L'ultimo anno delle scuole superiori il mio fidanzato era in carcere per "sostenere la prova della neutralità cristiana". Al termine delle scuole il mio desiderio sarebbe stato quello di laurearmi, visto che avevo sempre il massimo dei voti, ma i miei genitori mi dissero che avrei dovuto pagarmi l'università col mio lavoro e il mio fidanzato che non potevamo rimanere senza sposarci altri cinque-sei anni, protraendo così il nostro fidanzamento ad un totale di nove anni. Se considerate il punto di vista dei Testimoni di Geova sulla fornicazione, al quale noi ci attenevamo scrupolosamente, potrete anche capire perché...

Così trovai un lavoro, un ottimo lavoro, e l'anno dopo ci sposammo (20 anni io e 22 lui). Inizialmente tutto andò per il meglio, facemmo della "verità" il fulcro della nostra vita, lui si impegnò nella congregazione e io nel servizio. Vedendo che il mio lavoro a tempo pieno era un impedimento, decisi di cambiarlo e iniziai a fare la supplente per avere più tempo libero per la predicazione. Feci la pioniera regolare e l'anno dopo frequentai la Scuola dei Pionieri. Mi impegnai anche come insegnante nella scuola per imparare a leggere e a scrivere tenuta in congregazione. Ma tutti quegli impegni mi sfiancarono e, insieme ad una dieta fatta con l'ausilio di anfetamine, mi provocarono un bell'esaurimento nervoso. Decisi così di smettere il servizio, sentendomi poi però soffocata dai sensi di colpa, soprattutto quando partecipavo ad assemblee che incoraggiavano ad impiegare così la propria vita.

Nel 1987 ci fu quel famoso discorso che incoraggiava a non avere figli, subito seguito dall'articolo della Torre di Guardia. Per fortuna noi avevamo appena cercato un figlio e così iniziò un periodo meraviglioso ma difficile, che portò piano piano al mio allontanamento.

Al momento del parto si verificò un grave imprevisto: il mio utero non si dilatava a sufficienza, le contrazioni mi furono provocate con flebo di ossitocina poiché le acque erano già tinte e c'era in atto una sofferenza fetale. Dopo 12 ore di travaglio fui portata in sala parto e il bambino fu spinto fuori dal medico che si sdraiò sulla pancia. Non so se sia stata questa la causa, ma il collo dell'utero si lacerò. Nessuno si accorse dell'accaduto e i miei genitori e mio marito furono rimandati a casa. Una volta in corsia svenni a motivo dell'emorragia interna e fui operata d'urgenza. Le ultime parole che dissi sono: "Niente sangue. Chiamate mio marito".

Ormai però di sangue ne avevo perso troppo e sarebbe stata necessaria una trasfusione che mio marito rifiutò. Quando mi risvegliai, ero in rianimazione, intubata, senza energie. Mi spiegarono che era in atto uno stillicidio, non si capiva da dove perdevo sangue, ma continuavo a perderne, e senza una trasfusione non sarei sopravvissuta. L'emoglobina scendeva rapidamente. I miei genitori erano lì, fuori dalla rianimazione, e litigavano di continuo con mio marito, i fratelli, i membri del Comitato Sanitario che non lasciavano mai l'ospedale, facendo i turni. Io continuai a firmare contro la trasfusione finche venni informata che era in atto un'ischemia e che avrei potuto rimanere gravemente danneggiata al cervello o al cuore. Nonostante tutto io continuai a rifiutare e durante la notte i medici, ottenuto il permesso del Magistrato, mi trasfusero in modo coatto.

Ricordo ancora l'emozione violenta che provai quando me ne resi conto: da un lato la rabbia, la paura, il dolore per aver trasgredito ad un comando di Geova, dall'altro il sollievo perché io volevo vivere e crescere il mio bambino che aveva bisogno di me. Non ammisi mai a me stessa questi sentimenti, continuai a paragonarmi ad una donna violentata, ma sapevo di non aver fatto tutto il possibile per impedirlo. Avevo letto su una rivista di una sorella che si era strappata tutti i tubicini e io non avevo il coraggio di farlo.Questi sensi di colpa continuarono a tormentarmi per molti e molti anni dopo questo episodio.

Dopo una settimana finalmente uscii dalla rianimazione e tornai in corsia. In ospedale non si parlava d'altro, le mamme mi evitavano, le infermiere mi trattavano male: nessuno capiva. come può una mamma abbandonare il suo bambino??? Qualcuno chiedeva spiegazioni, ma poi mi trattava male. Finalmente tornai a casa. Il mio cucciolo aveva già 12 giorni. Da quel momento lui diventò la mia ragione di vita, il mio unico e grande amore. Piansi per molti giorni e molte notti. Mi sentivo in colpa e telefonai agli anziani per sapere che provvedimenti avrebbero preso nei miei confronti. Mi dissero di non pensarci per ora.

L'unica visita che ricevetti fu quella del sorvegliante che non accennò al problema.
Quando finalmente riuscii a tornare in sala, avvicinai un anziano e lui mi disse che gli anziani si erano riuniti e non avevano ritenuto opportuno formare il comitato in quanto la cosa non era dipesa da me. Nient'altro.nessuno mi chiese come mi sentivo nell'anima.e io ero a pezzettini. Espressi il desiderio di denunciare i medici per avermi trasfuso contro la mia volontà, fu interpellato l'Ufficio della Betel, e la risposta fu che in questi casi si procede alla denuncia solo se ne può derivare una pubblicità positiva all'organizzazione, ma nel mio caso l'opinione pubblica non si sarebbe certamente schierata a nostro favore, quindi meglio lasciar perdere.
Non capii, ma accettai ugualmente, anche se questa risposta calpestava totalmente i miei sentimenti e la mia coscienza.

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Ovviamente, a motivo di quanto era accaduto, non potei allattare il mio bambino e anche questo fu per me un grosso cruccio. Appena mi rimisi un po' in forze comunque, dopo circa 30 giorni, ricominciai a frequentare tutte le adunanze, ovviamente riprendendo le vecchie abitudini di passare a prendere e riaccompagnare una persona malata, quindi uscendo molto presto da casa.

Mi resi conto ben presto che non capivo più niente di quanto veniva detto perché dovevo occuparmi del mio piccolo, che aveva un temperamento molto nervoso, piangeva spesso, aveva sempre fame e io dovevo preparare il latte caldo con lo scaldabiberon nella saletta. Inoltre mio marito fu subito nominato anziano (mi sono sempre chiesta se la scelta fatta in relazione al sangue avesse influito sulla nomina, ma non ho la risposta.) e quindi durante le adunanze aveva troppo da fare e dopo le adunanze doveva restare a lungo nella Sala del Regno. Tutto questo per me divenne ben presto un peso difficile da sopportare anche perché mi sentivo come svuotata, priva di energia, e quindi cominciai prima a lamentarmi, venendo a volte tacciata di mancanza di sottomissione, e poi a tornarmene silenziosamente a casa da sola.

Non dimenticherò mai l'assemblea del 1988. Il piccolo aveva 4 mesi, doveva iniziare a mangiare le prime pappe proprio in quei giorni e io, a motivo dell'inesperienza, proprio non pensai di portare con me anche il latte, nel caso qualcosa non andasse per il verso giusto. L'assemblea durava quattro giorni e mio marito aveva incarichi per cui stava al reparto tutto il giorno. Faceva un caldo terribile, eravamo in un impianto sportivo coperto a Milano, credo fosse il Vigorelli, e Luca rifiutava di mangiare le pappe. Lo innervosivano la confusione, il rumore e il caldo e io non avevo portato altro da dargli. Presa dalla disperazione il sabato me ne tornai a casa piangendo e la domenica non andai. Ricordo che pensai che fosse inumano portare dei piccoli in un ambiente così, in mezzo a tutta quella gente, col rischio anche di farli ammalare e sconvolgendo i loro ritmi di vita e la loro tranquillità, ma ero sicura che Geova richiedesse che si "ammaestrassero" così i nostri figli.

Crescendo il mio bimbo divenne uno dei più bravi bimbi a furia di essere severamente disciplinato e tutto filò più liscio finche arrivò il tempo dell'asilo. Lì cominciarono le crisi vere. Nel frattempo ci eravamo trasferiti in un piccolo paesino di provincia, di origini contadine e di mentalità molto ristretta rispetto a quella di Milano, senza immigrati né stranieri. insomma, tutti rigorosamente italiani e cattolici. Così, durante le ore di religione, lui e un altro bimbo figlio di fratelli venivano allontanati dalla classe in modo molto vistoso e fatti restare in un'auletta. Sebbene la maestra avesse l'obbligo di stare con loro, qualche volta capitava che si scambiassero i turni tra loro quindi invece di essere in tre durante quelle ore (due in classe e una con gli esonerati), si ritrovavano in due e, invece di fare una e una, rimanevano due in classe e mandavano i nostri due bimbi in un'altra sezione o li lasciavano soli in un'auletta vicina andando a controllarli di tanto in tanto. Questo ingenerò crisi di pianto nei piccoli e quindi il rifiuto di frequentare la scuola materna, con enormi disagi per me che, lavorando, dovevo per forza farvi ricorso.

E poi arrivarono i tempi delle festicciole. come si fa a spiegare a dei piccoli bimbi che non devono partecipare alle feste di compleanno? Siamo sempre stati contrari a terrorizzarlo con minacce di distruzione da parte di Geova, volevamo inculcargli l'idea di un Dio d'amore, ma come farglielo capire? Se penso che consideravo questi dei problemi. non riesco a crederci. Eppure, quando le mamme mi chiedevano di portare Luca alle festicciole dei loro figli, dicevo sempre no, di fare i regali di Natale alle maestre, sempre no. Piano piano cominciarono ad evitarmi mentre facevano amicizia tra loro e aiutavano i loro figli a fare amicizia. Mi sentivo sempre tagliata fuori, ma ero convinta che fosse giusto così. Contemporaneamente cercavamo di frequentare fratelli con figli, ma nessuno aveva l'età del mio, solo uno che aveva un anno in meno. Quella famiglia non rispecchiava certo la nostra idea di amici ma cercammo di legare con loro per amore di nostro figlio.

Tutto ciò continuò per tutti gli anni della scuola elementare e della scuola media, con esperienze di discriminazione anche da parte delle insegnanti veramente gravi e pesanti. Io cominciavo seriamente a chiedermi se la sofferenza che gli creavamo fosse giusta, se Dio poteva volere questo da un bambino, ma mio marito, un "fedele cristiano", diceva che imparare a dire di no e ad andare contro corrente tempra il carattere e dà la forza poi di dire di no al fumo, all'alcool, alla droga e alle cattive compagnie. Inoltre diceva che i sacrifici sono accetti a Dio e che se tutto fosse stato facile, non avremmo potuto dire di essere nella verità.

Il mio zelo per il servizio intanto andava affievolendosi sempre più. Avevo provato a portare qualche volta il bambino con me ma mi capitò per due volte di essere accusata dalle persone di sfruttare i bambini per impietosire la gente e spingerla ad ascoltare. Questo era veramente troppo!! Mi rifiutai di continuare a portarlo in servizio, anche perché era di salute cagionevole e non mi sembrava giusto fargli prendere freddo (e nemmeno caldo.). Il padre allora si incaricò di portarlo con sé ogni qualvolta fosse possibile, ma mi si spezzava il cuore vedere questo piccolo di 8-10 anni svegliarsi presto e uscire vestito di tutto punto con la borsettina in mano (cosa che avevo osteggiato da sempre, perdendo però la mia battaglia di fronte alle insistenze del bambino che voleva imitare i grandi.).

Anche lo studio familiare era diventato per me una sofferenza: mentre inizialmente gli si leggevano i racconti biblici, poi il vederlo inchiodato al tavolo a soffrire per periodi di tempo sempre più lunghi (bisognava arrivare piano piano alla fatidica ora di studio) e il rendermi conto che non provava piacere in questo, mi portò a decidere di non volervi più prendere parte. Me ne stavo in cucina o in un'altra stanza a stirare o a leggere.
Se dovessi ricordare tutte le cose che ho vissuto con disagio credo che vi terrei incollati al video per ore, ma alcune non posso evitare di raccontarle, come ad esempio: LE FERIE.

Sì, le ferie, quel tanto agognato momento di relax e di unione familiare che si attende e si programma mesi prima, per me erano diventate fonte di stress. Innanzitutto, bisognava programmarle in un periodo in cui non ci fosse l'assemblea di distretto e non quando ne avevamo voglia o quando sarebbe stato più economico farle, poi bisognava scegliere località in cui la congregazione fosse ad una ragionevole distanza in modo da frequentare assiduamente tutte le cinque adunanze settimanali e dedicarsi almeno una volta alla settimana al servizio di campo. Di conseguenza, alcune località erano precluse. Inoltre bisognava scegliere compagnie edificanti con cui trascorrerle (oppure andare soli). E fatto tutto questo, i nostri bagagli erano assurdi e rasentavano il ridicolo: oltre a tutto ciò che serve per le normali vacanze, dovevamo partire forniti di abbigliamento, calzature e accessori adatti per le adunanze e il servizio, per non parlare poi di tutte le pubblicazioni necessarie per noi tre e quelle da distribuire nel campo.

Negli ultimi anni, eravamo arrivati a prendere in affitto una casa di fratelli e a tenervi lo studio di libro e le adunanze per il servizio di campo della domenica mattina, oltre naturalmente a prestarci per condurre o collaborare nelle adunanze tenute solo per i turisti. Mio marito quindi preparava parti, conduceva la Torre di Guardia o faceva discorsi pubblici, e io sempre almeno un discorso di esercitazione alla Scuola di Ministero Teocratico.

Non voglio dire che qualcuno mi abbia forzato a fare tutto ciò, sono state sempre e solo scelte, ma scelte condizionate dal fatto che noi ci credevamo davvero e prendevamo per oro colato ogni suggerimento che provenisse dall'organizzazione.
E a questo si aggiunga che io non ho coltivato le mie vecchie amicizie d'infanzia, ho tenuto anche a distanza i miei genitori non TdG e altri parenti perché la domenica eravamo sempre impegnati e non riuscivamo a trovare il tempo per stare con loro, e poi non festeggiavamo compleanni, onomastici, Natale, Pasqua e tutte le altre ricorrenze. Ho sicuramente ferito con il mio modo di fare "scostante" tanta gente che mi voleva bene e a cui chiedo, se può servire a qualcosa, scusa.

Non ce l'ho fatta a dire tutto quel che andava detto... dovrete leggere ancora se volete sapere come va a finire.

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Da quando avevo avuto il bambino e ricevuto la trasfusione mi sentivo sempre in colpa e avevo iniziato a soffrire gravemente di depressione. Decisi di andare da uno psichiatra, ma dopo il secondo colloquio lui mi disse: “Signora, lei ha due grandi problemi che non vuole affrontare: il matrimonio e la religione. Torni da me quando sarà pronta a parlarne. Fino ad allora non potrò esserle d’aiuto”. Rimasi sconcertata perché erano argomenti che lui aveva tentato di affrontare e io avevo, secondo me abilmente, scansato. Evidentemente non così abilmente…

Ho riflettuto tanto su quelle parole, ma non era ancora il momento giusto. Fino ad allora però ero sempre stata sincera, avevo cercato di mettere in pratica tutto quel che mi veniva detto, ma ci fu una persona che diede una svolta alla mia vita, una sorella, moglie di un anziano, con la quale per circostanze particolari mi ritrovai a fare “amicizia”. Era la classica persona “dalla doppia faccia”, che aveva avuto brutte esperienze nell’organizzazione e aveva capito che tutto l’amore e l’amicizia che regnano nella Sala del Regno sono solo ipocrisia. Fu lei ad aprirmi gli occhi facendomi notare varie cose che non andavano. Spesso restavamo sole, mentre i nostri mariti anziani si dedicavano alle faccende di congregazione, e iniziammo ad aprirci reciprocamente.

Allora mi resi conto che fino a quel momento non ero mai stata veramente me stessa e non avevo mai avuto il coraggio di dire chiaramente ciò che pensavo: di solito mi attenevo ai consigli dello schiavo di condurre conversazioni edificanti, di non parlare male dei fratelli, di non diffondere pettegolezzi, di non esternare i miei dubbi (l’unico ad esserne a conoscenza era mio marito), di non fare inciampare altri e così via. I primi discorsi con lei mi fecero sentire profondamente in colpa, ma piano piano mi aprirono anche gli occhi e capii che il “paradiso spirituale” era solo un’invenzione…

Mio marito in seguito ad una fusione aziendale (e anche grazie al fatto che non era mai disponibile per fare straordinari visto che prima doveva venire Geova e la verità) aveva perso il suo posto in banca, dove lavorava da 17 anni, e ci ritrovammo seriamente in difficoltà. Il mio lavoro non era sufficiente per sbarcare il lunario e, benché cercassi di stargli vicino, lui era diventato intrattabile e i nostri rapporti sempre più tesi. Il bambino aveva iniziato a soffrire di enuresi, cosa che si portò avanti fino ai 14 anni, e la vita divenne sempre più difficile. Intanto il servizio mi era diventato un peso insopportabile, le adunanze non le reggevo più, mi sembrava di andare a perdere tempo per sentire sempre le stesse cose mentre a casa avevo un sacco di cose da fare.

Addirittura ad un certo punto iniziai ad avere crisi di claustrofobia. Io non soffro di claustrofobia, ma non sopportavo proprio di restare lì, così passavo le adunanze in saletta, oppure portavo un quaderno e fingendo di prendere appunti, scrivevo come mi sentivo, le sensazioni che provavo, il mio profondo disagio interiore. Ho ritrovato quei fogli pochi mesi fa e sono rimasta sconvolta dall’angoscia che traspariva da quegli scritti. Mio marito intanto, messo al corrente della cosa, continuava a dirmi che Geova apprezza gli sforzi che facciamo per esserGli fedeli, la fatica e la nostra sofferenza. Mi sembrava così assurdo che Lui fosse felice vedendomi stare male, ma davo molto credito alle parole di mio marito, così tiravo avanti.

Ad un certo punto però smisi di uscire in servizio, mi limitavo ad accompagnare le sorelle a fare le visite ulteriori o gli studi biblici, e notavo che molte di loro visitavano persone a cui non interessava proprio niente di Dio e della Bibbia, ma avevano solo bisogno di chiacchierare. Così si beveva il thè, si facevano quattro chiacchiere e prima di congedarsi si lasciavano gli ultimi numeri delle riviste con fare noncurante… Ancora di più cominciai a domandarmi cosa facevo lì a perdere tempo invece di essere a casa col mio bambino. Una volta dissi ad un anziano che mi sentivo come un lumicino che si stava per spegnere e gli chiesi di venire ad aiutarci, a parlarne a casa. Lui rispose che se non era mio marito a chiederlo, non poteva scavalcare la sua autorità. Questa risposta mi uccise... ma allora io non contavo niente? Mio marito era anziano anche grazie a me, al mio sostegno, ai miei sacrifici, e poi, quando avevo bisogno, non potevo ricevere aiuto? Cominciai a pensare seriamente che una organizzazione che calpesta le donne in questo modo non faceva per me e da quel giorni rifiutai di svolgere qualsiasi parte dal podio che comportava scenette familiari o dimostrazioni con mio marito.

Il colpo di grazia me lo diedero le vacanze del 2002. Avevo detto a mio marito che non sarei più andata in una casa ma che volevo a tutti i costi una vacanza all inclusive, che durasse una settimana se non si poteva fare di più, ma una vacanza vera, altrimenti non ci sarei andata. E che non ne volevo sapere di adunanze e servizio in quel periodo. Ci recammo all’agenzia viaggi e scoprimmo che andare in Egitto costava meno che in Italia, e così prenotammo. La vita del villaggio mi sembrò meravigliosa, niente più ritmi scanditi da martedì-giovedì-domenica, niente più adunanze da preparare, niente vestiti eleganti nelle valigie, mi godetti tutto fino all’ultimo minuto, partecipai alle attività, acquagym, scuola di ballo latino-americano, spettacoli, notti sulla spiaggia, tutto tutto… Lui invece aveva sempre la Bibbia e le riviste in mano e non partecipava quasi per niente alla vita del villaggio, tanto che dopo 15 giorni una signora mi chiese se non ero sposata e non avevo figli perché mi vedeva sempre sola…

Al ritorno decisi che non avrei messo più piede in una Sala del Regno, che avevo gettato via la mia giovinezza e non volevo gettare via anche quello che mi restava della vita. Mio marito mi chiese di resistere fino a settembre, dopo la visita del Sorvegliante, perché era consapevole che la mia assenza dalla Sala non sarebbe passata inosservata e gli avrebbe creato problemi. Acconsentii, ma il Sorvegliante guardando i rapporti, andò comunque da lui a chiedere ragione delle mie 4 ore mensili di servizio (tra l’altro inventate… ma questo lo sapevo solo io). La cosa mi fece ulteriormente inferocire, come si permettevano di chiedere a lui conto di cose che avevo fatto io? E questo rafforzò la mia determinazione di non farmi più vedere. Se non ero nemmeno degna di essere chiamata a rendere conto in prima persona del mio operato e della mia relazione con Geova, ma si pretendeva di chiederne conto a mio marito, questo era davvero troppo.

Mi sentii usurpata di un mio diritto di essere umano e della mia dignità di donna. Capii che non era posto per me. Diedi un taglio netto, non risposi più nemmeno alle telefonate, non permisi a nessuno di venire a trovarmi, non diedi spiegazioni (visto che conta solo mio marito, le chiedano a lui, pensavo). E smisi del tutto di andare in sala e di vedere i fratelli. Declinai tutti gli inviti, inclusi quelli ai matrimoni, e finalmente iniziai a stare meglio, ma tanto meglio… così tanto che smisi di prendere gli antidepressivi. Il problema numero uno era risolto. Ora rimaneva il numero due: un matrimonio che non andava… Ma di questo ne parlerò alla prossima puntata…

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IV PARTE

Un matrimonio che non andava… e che con il mio abbandono della religione andava ancora meno. Si era arrivati al punto in cui lui usciva per andare in Sala e io restavo a casa sola. Nostro figlio nel frattempo aveva 15 anni e io lo vedevo soffrire. Capivo che seguiva il padre malvolentieri, che cercava scuse per rimanere a casa, che tornava dalla Sala sempre nervoso e arrabbiato perché era stato ripreso dagli uscieri o perché si era annoiato a morte. Ragazzo sveglio il mio… e di sentire sempre le stesse cose non ne poteva più…

Per fortuna l’anno precedente, quando aveva espresso il desiderio di battezzarsi (ma solo perché il suoi amico l’aveva fatto spinto dalla famiglia e lui riceveva continue sollecitazioni dai fratelli a fare altrettanto) io l’avevo trattenuto. Gli avevo detto: “Non è necessario Luca che tu lo faccia ora. Sei troppo giovane e se un giorno tu dovessi cambiare idea ti ritroveresti davanti a comitati giudiziari a dover rendere conto delle tue azioni, oltre al fatto che nessuno ti rivolgerebbe più la parola. Se tra qualche anno sarai ancora convinto, potrai tranquillamente farlo. Non cambia niente”. Come sono contenta ora di aver ragionato così. Lui non è stato ostracizzato come me ed è più sereno.

Tra me e mio marito però l’armonia era in calo continuo. Già il nostro non era un gran matrimonio… con questa situazione peggiorò ulteriormente. Provammo ad iscriverci insieme ad una scuola di latino-americano. Ci andavamo il mercoledì sera, ma poi quando si trattava di andare a ballare per mettere in pratica non si riusciva mai, sia perché le serate latine erano per la maggior parte di giovedì (giorno di adunanza), sia perché, anche quando trovammo locali che le facevano di venerdì, era impensabile star fuori così tante sere la settimana (martedì e giovedì adunanza, mercoledì scuola di ballo e venerdì serata danzante? Oltre alla domenica sera da passare coi fratelli…e lui era anziano e a volte usciva la sera per visite pastorali o adunanze varie). Così lasciammo perdere anche quello.

Allora provai a chiedergli di andare via qualche weekend, ma no… non si poteva… doveva avvisare prima, o aveva un discorso da pronunciare, o la comitiva da tenere, oppure mancavano altri anziani e doveva esserci lui in Sala, oppure dopo l’adunanza c’era qualche riunione di anziani…insomma da rimanere senza fiato. Lasciai perdere anche quello e mi rassegnai.
Un anziano nostro amico venne una sera e, messo a conoscenza della situazione, gli consigliò di essere più morbido, di lasciar perdere alcune adunanze, perché altrimenti avrebbe rischiato di perdere la famiglia. Ma lui continuò nel suo atteggiamento intransigente. Nel frattempo, dopo un anno dalla mia decisione di non frequentare più, anche mio figlio riuscì a dire che non interessava nulla nemmeno a lui e smise di frequentare la Sala col padre.

Una sera accadde una cosa che diede il colpo di grazia alla nostra unione. Io ho un fibroma uterino, come molte donne della mia età, niente di grave, ma a volte causa forti dolori. Una sera mi sentii male, preparai la cena e chiesi a mio figlio di apparecchiare la tavola. Quando mio marito tornò dal lavoro misi la cena in tavola e non riuscii più a rimanere in piedi per i forti dolori. Chiesi scusa e mi misi a letto. Al termine della cena chiesi a mio marito di sparecchiare e riordinare la cucina prima di andare in Sala perché io non riuscivo nemmeno a stare in piedi. Lui rispose che aveva fretta, doveva essere là prima, aveva tante cose da fare, e impose a Luca di sparecchiare. Luca si rifiutò dicendo che lui aveva apparecchiato. Litigarono tra loro e alla fine mio marito decise che avrebbero fatto metà per uno. Sparecchiò metà della tavola e andò all’adunanza senza curarsi che Luca sparecchiasse davvero l’altra metà. Lui non lo fece. Alla fine mi alzai e lo feci io ma giurai a me stessa che da quella sera niente sarebbe mai più stato lo stesso. Se per una religione lui era disposto a farmi stare male, non meritava che la nostra unione continuasse.

Feci un bel discorso a mio figlio sull’amore e sulla giustizia, gli dissi che disapprovavo il suo comportamento di quella sera perché l’amore deve andare ben oltre la giustizia e che, se anche poteva aver ragione sul fatto di dividersi i compiti (e non è detto che ce l’avesse comunque, visto che il padre era andato al lavoro durante il giorno), il suo gesto alla fine aveva fatto stare male me. Gli spiegai che non si può ragionare in questo modo “legalistico” ma l’amore va oltre e ti permette anche di fare sacrifici per il bene della persona che ami. A mio marito non dissi niente ma nel mio cuore la nostra storia era chiusa. Aveva superato un limite…

Ci furono altri episodi della nostra vita intima che per ovvie ragioni preferisco non raccontare ma che mi fecero capire che era tutto finito. La religione entrava anche in questo aspetto della nostra vita e, se fino a quel momento l’avevo accettato, cominciai a rendermi conto che era assurdo. Così cominciai piano piano a parlare di separazione, ad introdurre l’idea… E alla fine andai dall’avvocato e presi la decisione. Lui andò via un giorno di ottobre del 2004. Avevamo fatto le valigie insieme e pianto tutto il giorno mentre le preparavamo e mentre le caricava in macchina. Eravamo stati insieme 27 anni, avevamo condiviso tutto, gioie, dolori, lutti, e nostro figlio…

Una domenica di luglio del 2005, dopo tre anni di inattività e la separazione da mio marito, ricevetti la visita del sorvegliante, che feci salire perchè era in compagnia dell’anziano che consideravo nostro amico, quello che disse a mio marito di essere più morbido, una persona veramente leale e sincera. Credo che abbiano mandato lui apposta... nessun altro è mai riuscito a salire le scale di casa mia in quegli anni.
Comunque, per farla breve (almeno ci provo), dopo una introduzione generale: "Piacere, che lavoro fai, anche io sono un informatico", ecc., ecc., si arrivò alla famosa speranza del regno. Io ovviamente dissi che non ci credevo più, così mi chiese cosa pensavo di Dio, della Bibbia e io fui sincera... tentò di fare breccia dicendo che Dio è un grande Comunicatore, il Comunicatore per eccellenza e quindi dobbiamo poter capire cosa dice.

Alla mia risposta che certo non erano loro ad averlo capito nè secondo me i cattolici, i musulmani e nessun altro e che quindi a me il discorso non interessava più niente e volevo solo vivere la vita gustandomi ogni singolo attimo, senza sempre pensare a privarmi di tutto in vista di un ipotetico futuro, disse che non vedeva margine di trattativa, quindi mi chiese se intendevo rimanere TdG. "L'argomento è doloroso ma va affrontato - disse - e mi pare che tu non ti identifichi più come una TdG. Ma se continui a portare questo nome devi mantenere una condotta degna del nome che porti, quindi moralmente pura".

Io risposi che l'unico vero motivo che ancora mi tratteneva era il timore che il mio ex marito cambiasse atteggiamento nei miei confronti e quindi si creasse una situazione difficile con nostro figlio di 17 anni, anche perchè mio figlio aveva il dente avvelenato e mi aveva già detto che non avrebbe sopportato che il padre rompesse con me... arrivando addirittura a dire che gli avrebbe tolto lui la parola... (cosa questa che io mi sono guardata bene dal riferire...).

A questo punto il sorvegliante affermò che non era giusto che io mi fregiassi del titolo di TdG e che godessi dei benefici risultanti da questo nome senza averne più diritto (sono qui ancora adesso a chiedermi quali sono questi benefici, se forse si riferiva alla sua visita...). Io risposi che l'unica cosa veramente amorale in tutto questo era che loro potessero intromettersi nella vita delle persone al punto da influenzare i rapporti di un padre con la madre di suo figlio e creare di conseguenza dei problemi ad un adolescente. Lui disse che questa era una questione di coscienza e sarebbe stato mio marito a decidere che fare... “Certo - risposi io - ma se sulle riviste è scritto tutto per filo e per segno... quale coscienza? Lui magari subirà pure delle ritorsioni se non fa come dite voi...”. Lui ribadì che non voleva assolutamente incoraggiarmi a dissociarmi ma che dovevo mantenere una condotta casta e morale, senza costringere i poveri anziani a sgradevoli lavori di polizia...

Bè, alla fine aveva fretta, ha concluso in fretta la conversazione dicendo che io sono una di quelle persone a cui la vita deve presentare il conto e che quando riceverò la fattura magari tornerò all'ovile... (menagramo).

L'indomani chiamai l'anziano chiesi delucidazioni su:
1) i presunti benefici di cui godevo, spiegando che se si parlava del loro saluto per la strada non me ne poteva fregare di meno;

2) il senso della frase: “mi fregio del titolo”, visto che io non mi dichiaravo mai TdG con nessuno, anzi...;

3) la spiegazione sull'attività di polizia, precisando che se li avessi visti appostati sotto casa mia, come avevano fatto anni prima con la mia amica per poterla disassociare, li avrei denunciati alle forze dell’ordine.

Non seppe dire altro che quelle sono frasi generali, che vanno bene per tutti ma non nel mio caso, che il sorvegliante non mi conosceva e non conosceva la mia situazione (al che gli chiesi perchè l'avesse lasciato parlare e dire quelle cose senza intervenire. Non poteva contraddire il sorvegliante, fu la risposta), di non considerarlo come un invito alla dissociazione... ecc., ecc.
Mio marito, interpellato il giorno dopo, mi disse di non prendere decisioni affrettate, spinta da altri, ma di esserne convinta. Quando gli chiesi come sarebbe cambiato nei miei confronti, lui rispose che non si sarebbe comportato in modo diverso con me, visto che siamo già separati e ormai parliamo quasi solo di nostro figlio. Io gli dissi che rischiava la frattura col figlio, di pensare bene a cosa fare e lui mi rispose che le minacce erano inutili, lui sapeva benissimo quello che avrebbe dovuto fare e quello avrebbe fatto indipendentemente da tutto e da tutti.
A questo punto... a ognuno le sue responsabilità. Io mi presi la mia e lui si prese la sua...

Scrissi la lettera di dissociazione, la imbucai personalmente nella cassetta delle lettere del Sorvegliante che Presiede, e tirai un bel sospiro di sollievo. Finalmente era finita!!!
Adesso, dopo 5 anni, devo dire che sono felice, felice di pensare con la mia testa, felice di essere me stessa nel bene e nel male, felice di avere un dialogo libero e aperto con mio figlio, felice che lui sia un bravo ragazzo nonostante i TdG pensino che sono bravi solo loro. Tanti amici di mio figlio stanno uscendo dall’organizzazione e si ritrovano ed escono insieme adesso, sereni. Certo, i problemi non sono mancati: problemi economici, il peso di dover decidere tutto da sola, di vivere sola l’adolescenza di mio figlio, e la solitudine.
E’ stato difficile ricostruirsi delle amicizie e spesso mi ritrovo ancora a passare la sera e i weekend sola perché tutte le mie amiche sposate hanno la famiglia da accudire in quei momenti. Però sono felice, sono libera, posso pensare… posso leggere quello che voglio, e sono tornata un’avida lettrice come ero nell’adolescenza.

E devo dire che mio marito si è dimostrato una persona intelligente. Non abbiamo mai perso i contatti e l’affetto che avevamo l’uno per l’altra, abbiamo continuato a comunicare, a sentirci, a vederci e parlare del nostro ragazzo, e anche ci aiutiamo quando è possibile, sia a livello pratico che economico.
Lui è un po’ fuori dalle righe adesso nella congregazione, molto meno inquadrato di prima, e credo si senta meglio anche lui. Ha dato le dimissioni da anziano al momento del mio allontanamento e non ha più voluto essere rinominato in seguito. Credo abbia trovato un suo equilibrio. Fuori di lì morirebbe, non avrebbe la forza di rifarsi una vita, di ricostruire tutto, quindi io non gli dico mai le cose che scopro, evito l’argomento religione con lui, sia per rispetto, perché so che con me non ne potrebbe parlare, sia perché non vorrei creargli scompensi. Lui è felice così, è bene che resti lì.

Io avevo bisogno di volare, della libertà della mia mente, come il gabbiano Jonathan Livingston.
Grazie a tutti per la pazienza.

Antonella


Crisi di coscienza,
Fedeltà a Dio
o alla propria religione?
Di Raymond Franz,
già membro del
Corpo Direttivo dei Testimoni di Geova
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